Tobin Tax: imposta sulle transazioni finanziarie
Piccola storia (tributaria) assurda: la Tobin Tax, un macigno che grava sulle transazioni finanziarie con l’insignificante peso di un sassolino. Comincia nel 1972 negli USA la prima puntata di un triste racconto di tassazione inventato da un economista, tale James Tobin (che nel 1981 verrà insignito addirittura del Premio Nobel), che ideò il concetto di effettuare un prelievo sulle transazioni finanziarie (nel caso specifico, sulle speculazioni in valuta estera).
Già nel 2001 lo stesso Tobin espresse in un articolo su Der Spiegel (intitolato ‘Abusano del mio nome’) il concetto che tale prelievo, di circa mezzo punto percentuale, fosse da lui ipotizzato solo al fine di stabilizzare le fluttuazioni delle valute (da cui il fondo veniva alimentato), ma che poi aveva dilagato in numerosi altri ambiti.
Al giorno d’oggi, l’imposizione sulle transazioni finanziarie proporzionali al patrimonio impiegato (!) (l’equivalente di una Tobin Tax – ma che tuttavia rimane improprio chiamare con questo termine – è stato introdotto nel mercato finanziario italiano nel 2013, quando il presidente del Consiglio era Mario Monti, con Legge 228/2012 artt. 491 e 492 e art. 495 per gli HFT).
L’imposizione di una tassazione su capitale in movimento per alimentare fondi destinati, da parte di chi governa istituzioni, a vari usi non è di per sé sbagliata: sul prelievo IVA comunitaria, ad esempio, si basano le fondamenta che pagano i costi di funzionamento dell’Unione Europea (più qualcos’altro, ovviamente). Lo stesso Tobin, ipotizzando un governo da parte della banca Mondiale del potenziale uso che il prelievo dovuto alla sua tassa portava, lasciò infine ai governi nazionali il ‘disturbo’ di destinare i fondi ottenuti con questa tipo di tassazione.
In Italia, tuttavia, la Tobin Tax è divenuta invece la nuova forma di espressione di un’antica tassa, quella sui contratti di Borsa del 1923, che era stata abrogata da poco tempo, e finisce nel maremagnum del gettito fiscale statale (senza, che si sappia, di un legame diretto col miglior funzionamento dei mercati, della Consob etc).
Indice:
Tobin Tax sul Trading Online
Veniamo ai giorni nostri e al perché si può definire “assurda” la Tobin Tax, soprattutto nella sua declinazione italiana. L’idea di una ‘tobin tax’ venne, in realtà, da J.M. Keynes, che nel suo “Teoria dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” aveva ipotizzato un prelievo sulle transazioni di borsa al fine di scoraggiare la speculazione finanziaria. Come molti ricordano, oltre che brillante economista politico, Keynes fu anche trader di gradissimo successo, che accrebbe enormemente il proprio patrimonio nonostante i rischi della Crisi finanziaria USA del 1929.
Keynes ipotizzava che la tassazione sugli acquisti di titoli azionari (e quindi sull’equity) fosse necessaria per invogliare il risparmiatore ad allungare l’holding time (cioè il tempo in cui stava nel mercato, e possedeva il titolo), scoraggiando la speculazione di breve e brevissimo periodo perché non era utile, ontologicamente, al fine per cui era stata creata la Borsa (ipotesi tuttavia discutibile perché anche le “scommesse” degli speculatori, seppur con investimenti “mordi e fuggi”, forniscono liquidità e alimentano il sistema finanziario delle Aziende capaci di affacciarsi al mercato diffuso dei capitali. Una implicazione che, nei tempi in cui internet e il trading online hanno messo il turbo alla Finanza consumer e si muovono ormai enormi quantità di denaro rispetto al passato non globalizzato, ha ancora meno significato.
La Tobin Tax si applica su tre operazioni tipiche:
- il trasferimento di proprietà di azioni e altri strumenti partecipativi (come regolato dall’art. 2346 co. 6 cod.civ.) emessi da società con residenza fiscale in Italia;
- le ‘negoziazioni ad alta frequenza’ (HFT);
- le operazioni su strumenti finanziari derivati (come regolati dall’art. 1 co. 3 TUF D.Lgs. 58/1998) i quali abbiano come sottostante una o più strumenti partecipativi come sopra descritti.
A buon titolo comunque, la Tobin è da considerare una vera e propria ‘tassa’, cioè un gravame tributario non legato alla capacità contributiva del cittadino (come invece lo è un’imposta come l’IRPEF), ma proporzionale a una ‘concessione’ di qualche cosa da parte dello Stato: in questo caso questo “quid” sarebbe il semplice privilegio di poter aprire una posizione di investimento durevole dei propri risparmi sul mercato azionario italiano.
E, anche se altri Paesi hanno adottato la Tobin Tax a partire dagli anni ’10 di questo secolo in poi (undici paesi come Francia, Austria, Italia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Spagna, Germania, Belgio ed Estonia hanno visto l’adozione di forme di tassazione sull’ingresso dei titoli in portafoglio), si dibatte sulla necessità di un’armonizzazione della normativa europea in materia, della sua possibile estensione ai mercati dei bond – peraltro già massacrati dai tassi di interesse pressoché a zero o, addirittura, negativi, come nel caso di certi treasuries – visto che questo vincolo non è omogeneo in tutti i mercati finanziari del Vecchio continente.
L’ipotesi comunque di adozione di una Tobin estesa, cioè allargata in modo massivo a equity, bond, derivati, etc. ha scatenato nel 2018 un acceso dibattito internazionale in USA, Giappone, Cina, Olanda e Inghilterra, Paesi che si sono dichiarati tutti contrari alla sua estensione – ipotesi sostenuta anche da alcuni movimenti no-global –, mentre l’Europa si è dichiarata più possibilista (in Svezia la tassa è esistita dal 1984 al 1991, visti gli scarsi risultati di gettito ottenuti).
Ora, la Tobin Tax in Italia funziona così: se si acquistano in una seduta azioni che sono presenti ancora in portafoglio alla chiusura del mercato giornaliero (al fixing delle 17.35, per i titoli non quotati nel mercato serale dell’afterhour, altrimenti alle 20.30) scatta un prelievo automatico sul valore patrimoniale del lotto acquistato di uno 0,1%. Tale prelievo insomma, opera sul valore della transazione, inteso come “saldo netto delle transazioni regolate giornalmente relative al medesimo strumento finanziario e concluse nella stessa giornata operativa da un medesimo soggetto“. Tale prelievo (in Italia dello 0,22% nel solo 2013, poi 0,2% ridotto a 0,1% per i trasferimenti che avvengono in mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione, colpisce anche il trasferimento di azioni che avvenga per effetto della conversione delle obbligazioni. La tassa colpisce anche tutti gli strumenti derivati sui suddetti strumenti “in misura fissa, determinata con riferimento alla tipologia di strumento e al valore del contratto“.
La precisazione sugli orari che creano vincolo di pagamento della Tobin è importante perché l’AH è un prolungamento, sia pur a scartamento ridotto, della possibilità di vendere azioni prese nell’orario di negoziazione normale, e quindi la chiusura di una posizione entro le 20.30 (per un titolo eventualmente ammesso, appunto, al serale), non genererebbe obbligo normativo.
Tale tassa non è dovuta in caso di limiti dimensionali, in termini di capitalizzazione, dell’Azienda stessa (500 milioni di euro, l’elenco è pubblicato ogni fine anno a cura della Borsa Italiana), in caso di titoli di stato (treasuries), fondi comuni di investimento, Sicav, Altre esenzioni si hanno per trasferimenti mortis causa o successioni, operazioni pronti contro termine, azioni di nuova emissione (IPO) o di mercato primario e nel caso di donazioni. La Tobin Tax non è dovuta neanche se si compra equity di un titolo di Azienda con residenza fiscale all’estero, ma è dovuta invece in caso si tengano nel cassetto, come accennato, non solo i titoli “puri e semplici” (le azioni), ma anche quelli da essi “derivati” (ad es. gli indici come FTSE-MIB, o i futures FUT-MIB etc).
Come pagare la Tobin Tax sul Trading Online
Nel caso in cui si sia scelto il regime dichiarativo, la Tobin Tax va pagata dal trader all’Agenzia Delle Entrate tramite modulo FTT (quello delle generiche informazioni relative all’imposta sulle transazioni finanziarie). Il codice tributo è 4058, 4059 e 4060 (rispettivamente azioni, derivati e negoziazioni ad alta frequenza) e va pagata entro il sedicesimo giorno del mese successivo alle operazioni effettuate. Tali obblighi gravano sul contribuente anche se il conto di trading è estero o è capitalizzato con poco (i controlli sono automatici, il trader viene sempre considerato contribuente italiano in base anche a dove vengono effettuate le spese principali, pur se è stata chiesta una sede estera a Malta, in Bulgaria o in Portogallo, ad esempio).
In caso di regime di risparmio amministrato (come si usa generalmente nel trading online; attenzione perchè si tratta di una cosa ben diversa dal “risparmio gestito”, che è quello che si ha quando si affidano soldi a un intermediario o broker chiedendogli di investirli per nostro conto), avendo aperto un conto titoli presso una banca o una SIM (Società di intermediazione mobiliare ai sensi del TUF-Testo Unico Finanza D.Lgs 58/1998 o Legge Draghi) l’intermediario in questione svolge per noi il ruolo di sostituto di imposta. Proprio a causa di questo si ottiene (spesso) il malus di vedersi prelevare subito i soldi da versare il 16 del mese successivo e destinati alla tassazione (che ammontano al 26% su capital gain o dividendi quasi fossero una sorta di “cedolare secca”, lasciando libero il trader da ogni obbligo di inserimento dei guadagni nei dichiarativi annuali – perdendo così anche eventuali compensazioni intra-annuali ma snellendo indiscutibilmente i problemi di gestioni per patrimoni finanziari di modeste dimensioni – come quelli dei trader consumer, appunto).
L’imposta insomma, viene trattenuta dall’intermediario finanziario alla fonte (ma questo vale anche sul 26% di dividendi e sul capital gain) e viene versata successivamente dal broker a nome del trader stesso, su cui comunque grava integralmente il carico fiscale, visto che l’ipotesi di un fallimento dell’intermediario finanziario non libererebbe comunque il contribuente dal tributo. E questo anche in caso di utilizzo dello stesso trader di marginatura, e quindi di risorse finanziarie necessarie a stare a mercato nell’overnight, che generano ovviamente il pagamento di oneri finanziari passivi.
Tuttavia il primo metodo (regime dichiarativo) espone il trader a tutti i problemi di necessitare dell’aiuto di un esperto, il fiscalista, i cui costi si giustificano chiaramente solo laddove i volumi di affari derivanti dagli introiti finanziari risultino molto rilevanti e/o necessitino di compensazioni che vanno ben oltre il semplice sconto delle perdite in conto capitale (minusvalenze) nel quinquennio successivo, unica arma lenitiva delle tasse del trader consumer. E dovrebbe trattarsi poi di un fiscalista molto esperto di trading, così da conoscere le minuzie degli adempimenti (es. chiusura in afterhour o no?) evitando il rischio di esporre l’assistito ai rigori di un accertamento (mentre le piattaforme di trading, automatizzando le operazioni e prelevando alla fonte i tributi, semplificano di molto la vita del trader di portafoglio non gigantesco).
Cappuccetto Trader incontra il lupo cattivo della Tobin Tax
Per capire cosa significhi e comporti la Tobin Tax in Italia, dobbiamo fare un ulteriore accenno al variegato mondo dei trader (consumer o meno) che si affacciano sul mercato finanziario nostrano. Nel mondo del trading, non solo online, esistono quattro (o forse cinque…) figure tipiche, tutte sostanzialmente basate sul tempo in cui si sta a mercato (detto “holding time“), cioè tra quando una posizione, long o short che sia, viene aperta e chiusa. I più diffusi sono i cassettisti classici (longholders) che girano quote di risparmio (attenzione: già tassato!) sul conto titoli sotto forma di acquisti (quasi sempre) di equity su mercati azionari nazionali (es. MIB, MOT), europei o internazionali (NYSE, Nasdaq etc). Chiaramente il cassettista, difficilmente, apre posizioni corte (cioè short, cioè vendendo allo scoperto), così come raramente usa la leva finanziaria (marginatura) nel proprio modus operandi tipico. Usando un metodo simpaticamente chiamato del “compra/prega“, i longholders attendono in genere due ritorni dal proprio investimento: la crescita del Prezzo della stock – e quindi la possibilità di rivenderla a prezzo maggiorato, realizzando un guadagno in conto capitale) – oppure (o anche) il pagamento di dividendi alle opportune scadenze, semestrali e annuali.
Appena sotto questo (spesso lungo o lunghisssimo) holding time ci sono i trader multiday, cioè quelli che aprono posizioni lunghe o corte e vanno overnight (cioè non chiudono in giornata le operazioni); questi trader sono detti anche swing trader. Quindi ci sono gli intraday, e gli scalper che aprono e chiudono rigorosamente in giornata, anche in perdita, le posizioni e si differenziano perché i primi accettano una visione anche multi-oraria dell’holding time, mentre gli scalper spesso aprono e chiudono le posizioni in pochi minuti). Infine, la categoria degli HFT (High Frequency Traders), detti anche “macchinette”, cioè algoritmi informatici che fanno migliaia di operazioni anche di pochi secondi l’una per ricavare spesso pochi cent o pochi euro, pagate le commissioni, e che tecnicamente non sarebbe umana – anche se questi sistemi sono ovviamente costruiti, programmati e governati da persone, “trader” a loro volta). Sono “trader” infine, i broker a cui i risparmiatori affidano i loro risparmi in modalità di “risparmio gestito“, che vestono in quel caso i panni del commerciante di strumenti finanziari “in nome e per conto” del proprio cliente (pur scegliendo di muovere il denaro stando a mercato come accennato sopra).
Tutte le categorie non cassettiste (tranne gli HFR, per specifico dettame di legge) non pagano la Tobin Tax (perché chiudono in giornata), tranne i multiday che calcolano il prelievo dell’1% insieme ai costi di commissione per rendere profittevole il proprio swing. La categoria più penalizzata dalla Tobin Tax in Italia è quella dei longholders appunto, che, usando denaro già abbondantemente tassato (cioè patrimonio, non reddito ormai epurato dalle tasse), si vede prelevare una tassa quando mette le azioni nel portafoglio, rendendo questo (odioso) balzello come una vera e propria patrimoniale cammuffata.
E si noti bene: qualora una posizione corta (short, cioè la vendita allo scoperto di una stock non posseduta, credendo che il Prezzo sia gonfiato, con l’obbligo successivo di comprarlo) venga tenuta in overnight, cioè per molte sedute sul multiday, la Tobin Tax è dovuta comunque alla chiusura dell’operazione, come sanno bene i trader consumer che operano in modalità di risparmio amministrato (e che vedono questo prelievo in automatico sul proprio conto corrente).
I cassettisti poi, a tutti gli effetti “soci” (perché azionisti, stockholders) dell’Azienda, vengono tassati ben due volte anche quando si parla di dividendi, visto che, per arrivare a essere tali (e divisibili sui possessori di stock, cioè sui soci, spesso la persona fisica del risparmiatore), gli utili vengono già tassati a livello di persona giuridica – oltre al 26% di tassazione che grava sui dividendi medesimi al momento della distribuzione.
Perchè la Tobin Tax Italiana è una tassa “assurda”
Quando Keynes ipotizzava la “sua” Tobin Tax (idea ben diversa da quella del Nobel Tobin stesso che la pensava per i mercati valutari), aveva il fine di scoraggiare le speculazioni – di scoraggiare cioè quello che è l’obiettivo di tutti i trader non-cassettisti sopracitati –, finalizzando la trasformazione del risparmio in investimenti, a beneficio delle Aziende del proprio territorio. Keynes voleva che le famiglie non mettessero i soldi “sotto il materasso”, ma in Borsa, cioè che li investissero in un modo che si desse “benzina finanziaria utile” alle Aziende affinché facessero girare i motori del loro business e dell’economia intera (un obiettivo che economisti del calibro planetario di Mario Draghi cercano di ottenere stimolando un’inflazione “buona”, cioè minimale ma necessaria, che spinga i risparmiatori a investire nel mondo produttivo nazionale).
La Tobin Tax, insomma, doveva essere solo uno strumento per scoraggiare la speculazione di breve e brevissimo periodo, e non un balzello a carico di chi apre posizioni lunghe che vorrà tenere per diverso tempo. Ebbene, se in Italia questa patrimoniale colpisce chi vuole investire a lungo termine in Aziende non estere (visto che, si badi, alcune big italiane hanno sede straniera), sia pur di grandi dimensioni, il risultato della prodigiosa Tobin italiana è solo quello di aggiungere un ulteriore gabella su soldi già abbondantemente tassati e tartassati. E il balzello è ancor più gravoso se si pensa che il cassettista di titoli stranieri non ne viene vampirizzato, spingendolo sempre più verso acquisti di equity estera piuttosto che locale.
Insomma, la Tobin Tax è un capolavoro di “assurdità tributaria” e disincentiva a investire su Aziende del territorio nazionale; è una tassa che, se venisse abolita per la sua manifesta anti-economicità sistemica, francamente, non mancherebbe veramente a nessuno.
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