Quali Stati vengono considerati Paradisi Fiscali

Paradisi fiscali, conti offshore, società di comodo e Black List sono termini che possiamo considerare di uso comune, tuttavia non sempre è ben chiaro di cosa si parli esattamente quando si leggono questi termini sui giornali o si guarda la TV.

Esistono una serie di Paesi caratterizzati da regimi fiscali particolarmente favorevoli e molto allettanti per privati e società che decidono di spostare i loro ingenti capitali, sfruttando tassazioni irrisorie e, in taluni casi, anche il segreto bancario. Il paradiso fiscale è, il più delle volte, un piccolo Stato con un’economia non certo fiorente e desideroso di attirare capitali esteri proponendo un ordinamento tributario alquanto accondiscendente.

In quest’articolo cercheremo di capire con chiarezza cos’è, e come funziona un paradiso fiscale, nonché cosa accada a chi decide di trasferire la propria residenza in uno di questi Paesi a fiscalità agevolata.

Indice:

 

Cos’è un paradiso fiscale

Un cosiddetto “paradiso fiscale” è Stato in cui l’ordinamento tributario prevede una tassazione particolarmente agevolata per i soggetti non residenti. Chi decide di trasferirsi in questi luoghi potrà godere di aliquote, sui redditi personali e di impresa, molto basse e, in alcuni casi, addirittura pari a zero. Il tutto per assicurare un ingente afflusso di capitali stranieri e favorire la realizzazione di strutture produttive a sostegno dell’economia interna. Il più delle volte, chi intende ottenere la residenza in un paradiso fiscale deve versare una determinata cifra per iscriversi all’anagrafe tributaria dello Stato scelto.

Sono soprattutto le multinazionali (ma spesso anche società di più modeste dimensioni) desiderose di svolgere attività produttive, o determinate operazioni finanziarie, sfuggendo all’elevata pressione fiscale del paese d’origine, a decidere di trasferire la sede della propria impresa nei paradisi fiscali e sfruttare le conseguenti agevolazioni. Oltre all’irrisoria imposizione tributaria, un ulteriore vantaggio sono le rigide regole sul segreto bancario che assicurano il compimento di transazioni coperte.

L’elenco dei paradisi fiscali è inserito nella cosiddetta “Black List” secondo quanto stabilito dai decreti ministeriali del 4 maggio 1999 e del 23 gennaio 2002. Ciò nonostante, con la legge finanziaria del 2008 è stato modificato il criterio per l’individuazione dei Paesi a fiscalità agevolata che avviene, quindi, per esclusione. Infatti, la nuova normativa prevede l’emanazione di specifici decreti per elencare quali Stati non siano da considerarsi paradisi fiscali.

 

Cos’è l’elenco Black List

Come appena detto, i paradisi fiscali sono elencati in un’apposita Black List elaborata dall’Agenzia delle Entrate. L’Unione Europea ha deciso di creare una lista comunitaria raccogliendo tutti gli elenchi nazionali dei Paesi membri e mantenendola costantemente aggiornata. L’ultimo intervento risale al 14 novembre 2019 e ha visto scendere a 8 il numero delle giurisdizioni che non hanno ancora acconsentito a collaborare ai fini fiscali.

Nonostante la presenza di una lista nera, il tema è spesso avvolto da una fitta cortina di fumo. Ad esempio, a partire dal 2017, in Italia è stato abolito l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate le operazioni svolte con Paesi inseriti nella Black List.

Tale lista nera è, comunque, un elenco che raccoglie Stati che hanno deciso di adottare un regime tributario agevolato con tassazione molto bassa e, allo stesso tempo, si sono rifiutati di aderire al sistema di scambio di informazioni e dati fiscali con le altre Nazioni. Secondo gli ultimi aggiornamenti dell’Ecofin i Paesi che hanno negato la cooperazione sono passati da 10 a 8 e sono:

  • Oman;
  • Figi;
  • Guam;
  • Samoa;
  • Samoa americane;
  • Trinidad e Tobago;
  • Isole Vergini degli Stati Uniti;
  • Vanuatu;

 

A cosa serve la Black List?

In Italia fino al 2016 chi intendeva eseguire operazioni con un Paese inserito in Black List aveva l’obbligo di inviare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate. Tale onere, come abbiamo appena detto, è stato abolito a partire dal 2017 dalla legge n. 193 del 22/10/2016.

Le normative fiscali inerenti i Paesi inseriti nella lista nera sono da sempre oggetto di interventi, come avvenuto con la Legge di Stabilità sia nel 2015 che 2016. A seguito di tali modifiche, e con l’aggiunta del decreto di internazionalizzazione, l’elenco non ha più alcuna validità ai fini delle deducibilità dei costi riguardanti le operazioni con Paesi considerati paradisi fiscali. In pratica, nonostante la Black List stabilita dall’Agenzia delle Entrate resti formalmente in vigore, gli effetti sono stati, di fatto, annullati e le operazioni, coi Paesi compresi nell’elenco, soggette a normale tassazione.

Accanto alla lista dei cattivi creata dalle Autorità Finanziarie degli Stati membri, è stato messo a punto un elenco europeo con lo scopo di eliminare la frammentazione delle liste nazionali. La nuova lista ha inserito Paesi che possono essere considerati paradisi fiscali in base a tre criteri:

  • trasparenza fiscale;
  • tassazione equilibrata;
  • rispetto e applicazione delle leggi dell’OCSE che riguardano il trasferimento di capitali tra diversi Paesi.

Dopo un’attenta analisi, gli Stati che non rispettano tali requisiti vengono etichettati come paradisi fiscali e inseriti nella Black List.

 

Elenco Paesi Black List 2020 Agenzia delle Entrate: la lista completa e aggiornata

Il tema della lista nera e dei Paesi da considerare paradisi fiscali, abbiamo detto non esser poi così chiaro. Fra elenchi europei, nazionali e aggiornamenti vari la situazione è piuttosto nebulosa. La cosa certa è che l’Agenzia delle Entrate ha effettuato l’ultimo updating il 26 settembre del 2016 attraverso la circolare 39, dove sono stati inseriti tutti i Paesi ritenuti a fiscalità privilegiata. Il suddetto elenco comprende:

Andorra, Bahamas, Barbados, Barbuda, Brunei, Gibuti, Grenada, Guatemala, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Vergini statunitensi, Kiribati, Libano, Liberia, Liechtenstein, Macao, Maldive, Nauru, Niue, Nuova Caledonia, Oman, Polinesia francese, Saint Kitts e Nevis, Salomone, Samoa, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Sant’Elena, Sark, Seychelles, Tonga, Tuvalu, Vanuatu

Un elenco davvero interminabile che però non è stato più aggiornato dall’autorità competente, tant’è che oggi, come riferimento per i paradisi fiscali, bisogna considerare quello approvato dal Consiglio Economico e Finanza (Ecofin). Si tratta della lista dell’Unione Europea che abbiamo indicato precedentemente, aggiornata al 14 novembre 2019 e contenente solo 8 Paesi ritenuti a fiscalità agevolata: Oman, Figi, Guam, Samoa, Samoa americane, Trinidad e Tobago, Isole Vergini degli Stati Uniti e Vanuatu.

 

Che cos’è un conto offshore e come si apre?

Spesso, all’interno delle pagine di cronaca si sente parlare dei cosiddetti “conti offshore” e, quasi sempre, sono legati a fatti illegali o, comunque, di proprietà di soggetti sottoposti ad accertamenti da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Quando una società viene appositamente creata in un paradiso fiscale assume la denominazione offshore e, in linea di massima, tale operazione, di per se, non risulta essere vietata dalla legge.

Tuttavia, l’artefice dovrebbe dichiararlo al Fisco e, sui profitti ottenuti in tale giurisdizione, versare le imposte secondo il regime fiscale previsto dalla legge tributaria italiana. In realtà, troppo spesso, lo scopo di un conto offshore è proprio quello di eludere il Fisco, occultando utili e proprietà, evitando in questo modo, neanche troppo difficilmente, il pagamento delle imposte. E’ un sistema adottato con frequenza anche dalla criminalità organizzata per riciclare il denaro sporco e da grosse multinazionali per pagare meno tasse.

Aprire un conto offshore non è certo un gioco da ragazzi che tutti possono fare, per tale motivo esistono apposite società residenti nei vari paradisi fiscali che si occupano di gestire tutte le transazioni per conto di terzi. Un esempio passato agli onori della cronaca è lo studio legale Mossack Fonseca & Co con sede a Panama. Disponeva di uno staff di oltre 500 persone e offriva servizi giuridici, finanziari e consulenze per investimenti fino alla sua chiusura, avvenuta nel 2018 a seguito dello scandalo Panama Paper. In pratica, da una serie di documenti compromettenti è scaturita un’impressionante mole di attività volte all’incorporazione di compagnie in paradisi fiscali e amministrazione di società offshore.

 

Come funziona un paradiso fiscale?

Se la definizione di paradiso fiscale è, di per se, molto semplice, e il nome stesso ci fornisca una chiara anticipazione del suo significato, comprendere invece i meccanismi interni di un Paese così considerato, è decisamente più complesso. Le agevolazioni fiscali sono un dato di fatto ma per ottenerle è necessario possedere un elevato livello di conoscenza dei sistemi tributari internazionali e degli Stati con fiscalità privilegiata. Per rendere le cose più semplici proviamo a fare un esempio.

Immaginiamo di essere i titolari dell’azienda “PincoPallino“, di produrre e vendere un determinato bene. Sugli eventuali profitti aziendali, ovvero sulla differenza tra ricavi e costi, dovremmo pagare le tasse secondo il regime fiscale vigente in Italia. Se vogliamo versare meno imposte del dovuto, una possibile soluzione, considerando di mantenere invariati i ricavi, è aumentare in modo fittizio i costi.

Un metodo può essere proprio quello di costituire una società offshore, ossia un’azienda gemella con sede in un paradiso fiscale. Supponiamo di aver scelto Panama come Stato in cui creare la società controllata, “combinazione” proprio uno Stato in grado di offrire un regime tributario particolarmente agevolato.

Si potrebbe, molto semplicemente, vendere un proprio marchio alla società panamense (comunque di nostra proprietà), la quale, da quel momento,  dovrebbe ricevere una quota annua per i diritti di sfruttamento del marchio su tutti i prodotti realizzati e venduti dall’azienda principale in Italia.

Con questo sistema si potrebbero ottenere due vantaggi: per l’azienda con sede in Italia il prodotto avrà dei costi maggiori, in quanto sarà costretta a pagare, tra le alte cose, anche i diritti di sfruttamento del marchio alla ditta Panamense, producendo di conseguenza minori utili e pagando quindi meno tasse in Italia.

Inoltre, la società gemella di Panama, sui soldi ricevuti, verserà le bassissime imposte dovute a Panana, nettamente inferiori a quelle che si sarebbero dovute pagare in Italia. Quindi, da una parte gli utili diminuiscono e, dall’altra, si hanno entrate tassate ad minimo in una società offshore. Considerando poi, che la differenza tra l’aliquota sui redditi di impresa in Italia e quella in un qualsiasi Stato considerato come un “paradiso fiscale” è enorme, il risparmio risulterebbe davvero allettante.

 

Cos’è la voluntary disclosure?

Il termine anglosassone voluntary disclosure tradotto in italiano significa collaborazione volontaria e rappresenta uno strumento per regolarizzare le situazioni di illeciti patrimoniali detenuti all’estero. Tutti i contribuenti che hanno trasferito in un paese straniero parte dei propri capitali per eluderli al Fisco, possono avvalersi del voluntary disclosure denunciando spontaneamente all’Agenzia delle Entrate le operazioni svolte, pagando le tasse dovute con l’aggiunta di una sanzione amministrativa per mettersi in regola.

Ad oggi, le autodenunce presentate al Fisco riguardano quasi esclusivamente contribuenti del Nord Italia e ne sono pervenute circa 130mila (un po’ pochine…).

 

Cosa comporta trasferirsi in un Paradiso fiscale?

Secondo il Decreto Ministeriale del 4/05/1999 vengono considerati residenti in Italia, fino a prova contraria, tutti i cittadini cancellati dall’anagrafe della popolazione ed emigrati in un Paese inserito nella lista degli Stati per i quali vige la presunzione relativa di residenza fiscale. In parole più semplici questo significa che la legge non proibisce, ovviamente, di trasferirsi in un paradiso fiscale, oppure in uno Stato appartenente alla Black List. Tuttavia, qualora ciò avvenisse, il soggetto per godere della fiscalità privilegiata deve dimostrare l’effettiva residenza nel Paese straniero.

Questo vuol dire che tale legge presuma residenti in Italia i cittadini cancellati dall’anagrafe della popolazione, anche quando questi emigrano in un paradiso fiscale transitando, anagraficamente, per un Paese non presente nella Black List.

Non spetta all’Agenzia delle Entrate ma al contribuente emigrato dimostrare di aver assunto un rapporto duraturo con il nuovo Stato e quindi la reale perdita della dimora abituale in Italia e di tutti i rapporti di natura economica, finanziaria, affettiva e sociale.

Per dimostrare questo, il soggetto potrà esibire documenti o prove inconfutabili che convincano, oltre ogni ragionevole dubbio, l’Amministrazione Finanziaria dell’effettiva residenza nella Nazione estera. Gli aspetti che comprovano l’emigrazione con maggior efficacia sono il possesso di un immobile adibito a residenza abituale, un eventuale contratto di locazione, l’iscrizione dei figli ad istituti scolastici ubicati nel Paese straniero, contratti lavorativi o rapporti di lavoro continuativo, nonché fatture per il pagamento delle bollette di luce, gas, acqua, telefono, ecc.

 

Trasferimento della residenza in paradisi fiscali

È opportuno sottolineare nuovamente che la legge italiana considera sempre cittadini residenti fiscalmente nel nostro Paese, quei contribuenti che si sono trasferiti in Nazioni con un sistema tributario agevolato che rientrano nella Black List, salvo che gli stessi possano dimostrare il contrario con prove inconfutabili.

All’Amministrazione Finanziaria spetta, invece, l’onere di comprovare la sussistenza delle condizioni per dichiarare un soggetto residente in Italia. Il contribuente per dimostrare la nuova residenza potrebbe avvalersi dei seguenti elementi:

  • disponibilità di una proprietà immobiliare nel Paese estero adibita a scopo abitativo e in grado di sostenere i bisogni personali e dell’eventuale famiglia;
  • sottoscrizione di un contratto di locazione o acquisto di un immobile residenziale per soddisfare le necessità personali e familiari;
  • pagamento canone per la fornitura dei principali servizi quali erogazione di acqua, gas ed elettricità, nonché la bolletta del telefono;
  • assenza di proprietà immobiliari disponibili in Italia;
  • contratto di lavoro continuativo nel Paese ospitante;
  • svolgimento di un’attività economica nel Paese estero;
  • mantenimento della famiglia nello Stato straniero;
  • iscrizione e frequentazione dei figli presso istituti di istruzione o formazione del Paese estero;
  • accredito su conto bancario del Paese estero di proventi ovunque conseguiti;
  • movimentazione di somme di denaro o svolgimento di attività finanziarie;
  • possesso di beni nello Stato estero;
  • iscrizione nelle liste elettorali del Paese straniero.
   

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