Non ho i soldi per pagare le tasse. Cosa devo fare?
Complice la difficile situazione economica, già traballante in periodi di normalità, e a cui si è aggiunta la grave emergenza causata dalla pandemia da Covid-19, i casi di persone che faticano a rispettare scadenze fiscali e i pagamenti sono sempre più numerosi. La frase “non riuscire ad arrivare a fine mese” è ormai all’ordine del giorno e, di conseguenza, molti cittadini cercano di arrangiarsi con le risorse a disposizione tagliando qualunque costo superfluo pur di tirare a campare. Ci sono però una serie di oneri a cui il contribuente non può sottrarsi e il mancato rispetto comporta conseguenze più o meno gravi.
Più in generale, chi smette di pagare le rate del mutuo rischia di non avere più un tetto sopra la testa, l’inquilino moroso può essere sfrattato dal proprietario, mentre le bollette arretrate portano il gestore del servizio a interrompere l’erogazione di luce, acqua o gas. A tutto questo, dobbiamo aggiungere le richieste del Fisco, con una lunga lista di imposte dirette e indirette. Il contribuente con le spalle al muro, spesso, prende la decisione di non pagare le tasse: cosa succede in questi casi? Partiamo col dire che gli effetti di tale azione cambiano a seconda se la persona presenti, o meno, la dichiarazione dei redditi, oppure non versi solamente le imposte già calcolate.
L’omessa dichiarazione dei redditi, qualora scoperta dall’Agenzia delle Entrate, comporta sanzioni (in taluni casi anche penali) per aver eluso al Fisco compensi invece percepiti e anche non aver pagato le relative tasse. Se invece il contribuente adempie almeno all’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi ma non versa i tributi, si vedrà recapitato un avviso di accertamento in cui saranno indicate le violazioni commesse e, successivamente, la cartella esattoriale per intimare il pagamento delle imposte dovute, le sanzioni applicate e gli interessi legali maturati.
Il paradosso è che non presentando la dichiarazione dei redditi e incassando compensi in nero, il soggetto potrebbe anche farla franca: per l’Amministrazione finanziaria non esiste essendo nullatenente e completamente senza reddito. Al contrario, non pagando le imposte sui redditi o su altri beni auto-dichiarati, verrà scoperto in automatico dal Fisco che gli intimerà coi propri metodi, anche coercitivi, di pagare le imposte, le sanzioni e gli interessi.
Indice:
- Quando presentare la dichiarazione dei redditi
- Mancato pagamento delle imposte
- Il ravvedimento operoso
- Il ravvedimento frazionato
- Omessa dichiarazione dei redditi: cosa si rischia?
- Ricostruzione dei redditi non dichiarati
- Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi: è prevista la prescrizione?
- Cosa si rischia non dichiarando tutti i redditi?
- Mancato pagamento delle imposte: cosa si rischia?
- Pignoramento dell’Agenzia delle Entrate
- Beni pignorabili e impignorabili in caso di debiti fiscali
Quando presentare la dichiarazione dei redditi
Lavoratori dipendenti e pensionati devono presentare la dichiarazione dei redditi entro il 30 settembre di ogni anno, utilizzando il modello 730. Le figure lavorative che invece percepiscono compensi differenti da lavoro dipendente o assimilato possono dovranno impiegare il modello Redditi PF con scadenza ultima il 30 novembre.
Un aspetto molto importante è quello di non dimenticare che la dichiarazione dei redditi è ritenuta valida anche se inviata entro 90 giorni successivi la regolare scadenza, quindi per il modello 730, ad esempio, si potrà arrivare fino al 29 dicembre. Di conseguenza, il contribuente commette la violazione di omessa dichiarazione solo nel momento in cui non rispetta l’obbligo entro i 90 giorni dal termine ordinario.
Con questo non sto dicendo che sia irrilevante attenersi alla prima scadenza, anzi è sempre buona norma provvedere per tempo rispettando così le corrette tempistiche per il pagamento delle imposte e la consegna della dichiarazione. Infatti, il ritardo nella presentazione della dichiarazione dei redditi comporta, gioco forza, un conseguente ritardo nel versamento delle imposte e la regolarizzazione della propria posizione attraverso il ravvedimento operoso, che comporta il relativo versamento di interessi e sanzioni, seppur in misura ridotta.
Quindi, nel caso in cui il lavoratore dipendente o pensionato non abbia rispettato il termine del 30 settembre, gli scenari possibili sono i seguenti:
- presentazione della dichiarazione dei redditi entro il 29 dicembre. La dichiarazione risulta valida e si dovrà solo valutare soltanto il ritardo nel versamento delle imposte e procedere a sanare la posizione. In questi casi, il soggetto dovrà pagare le imposte (se dovute), eventuali interessi e la sanzione formale per dichiarazione tardiva, pari a 250 euro, che può subire una riduzione grazie all’applicazione del ravvedimento operoso. Se anche le imposte sono state corrisposte in ritardo, c’è un ulteriore sanzione sempre calcolata attraverso il ravvedimento operoso;
- presentazione della dichiarazione dei redditi dopo il 29 dicembre: la dichiarazione è considerata omessa, perciò la sua utilità si limita al pagamento delle eventuali imposte. Il contribuente dovrà versare comunque le tasse, se dovute, applicando una maggiorazione compresa tra il 120% e 240%, con un importo minimo di 250 euro. Se invece, non c’è alcuna tassa da pagare, la sanzione ammonta alla sola quota fissa di 250 euro. Qualora il contribuente provveda a presentare la dichiarazione entro la scadenza della successiva dichiarazione dei redditi e prima che inizi l’attività di accertamento, le sanzioni saranno ridotte. La maggiorazione passa ad un valore compreso tra il 60% e 120% con un minimo di 200 euro, mentre la sanzione per la sola omessa dichiarazione si riduce a 150 euro.
Dobbiamo comunque evidenziare che a seguito dell’attuazione di decreti governativi speciali per fronteggiare l’emergenza pandemica, le scadenze per la presentazione della dichiarazione dei redditi hanno subito degli slittamenti.
Mancato pagamento delle imposte
Quando si avvicinano le scadenze fiscali e non si dispone della liquidità necessaria per saldare quanto dovuto, un buon consiglio è quello di optare, ove possibile, per un pagamento dilazionato. Sarà così più facile non contrarre debiti col Fisco rateizzando l’importo complessivo e pagando più comodamente.
Nel caso in cui non venissero rispettate le scadenze della rateazione, sarà possibile optare per il ravvedimento operoso solo sulla rata non versata, continuando a corrispondere le restanti quote senza ulteriori sanzioni. Inoltre, la legge consente uno slittamento di 30 giorni per il pagamento della prima rata, applicando una maggiorazione dello 0,4%. Altro suggerimento, se si dispongono di scarse risorse finanziarie, è quello di pagare le imposte riferite al saldo dell’anno in corso, lasciando perdere gli acconti per il periodo d’imposta a venire: se il reddito dovesse risultare inferiore all’anno precedente, minore sarà anche il danno per non aver versato gli acconti.
Il ravvedimento operoso
Abbiamo più volte menzionato il ravvedimento operoso, quindi andiamo ad analizzare nel dettaglio in cosa consiste. L’ordinamento tributario offre la possibilità al contribuente che si accorge di aver commesso errori, violazioni oppure omessi versamenti, di porvi rimedio per tempo. Un comportamento virtuoso e premiato concedendo sostanziose riduzioni delle sanzioni applicate, fermo restando l’obbligo di versare gli interessi legali maturati.
Nel caso di imposte non pagate, o versate in ritardo, la sanzione prevista dall’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997 è pari al 30% della cifra dovuta. In base alla tempestività con cui il contribuente ravvede la propria posizione può ottenere le seguenti riduzioni e pagare soltanto le sanzioni ordinarie:
- l’1% della sanzione al giorno per i primi 14 giorni;
- il 15% della sanzione dal 15° giorno fino al 90° giorno di ritardo;
- il 30% della sanzione a partire dal 91° giorno di ritardo.
Tenendo presente le tempistiche del ritardo, le sanzioni possono subire ulteriori riduzioni e dare origine a queste tipologie di ravvedimento:
- ravvedimento sprint: può essere esercitato entro 14 giorni dalla naturale scadenza del pagamento, applicando una sanzione pari allo 0,1% giornaliero;
- ravvedimento breve: scatta dopo il 14° giorno e si può adottare fino al 30°; la sanzione risulta 1/10 del 15%, quindi 1,5%;
- ravvedimento intermedio: se il versamento viene eseguito oltre il 30° giorno ma senza superare il 90° giorno, la sanzione è pari a 1/9 del 15% (1,67%);
- ravvedimento lungo: nel caso in cui il versamento fosse corrisposto entro un anno, oppure il ritardo non oltrepassi i termini per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo in cui è stata commessa l’omissione, la sanzione sarà pari a 1/8 del 30% ovvero il 3,75%;
- ravvedimento biennale: se il ritardo risulta essere entro la scadenza per la presentazione della seconda dichiarazione successiva al periodo di omissione, la sanzione è ridotta di 1/7 e pari al 4,29%;
- ravvedimento lunghissimo: viene applicata una riduzione di 1/6 qualora il ritardo risulti entro i termini per l’accertamento.
Non bisogna dimenticare che, oltre alla sanzione, è necessario aggiungere l’interesse legale nella misura dello 0,01% per il 2021, secondo quanto disposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
I ravvedimenti più sfruttati sono i primi tre della lista, con una riduzione massima pari a 1/9 della sanzione ordinaria. Questo significa che, generalmente, il contribuente cerca, nel limite del possibile, di regolarizzare la propria posizione sempre entro 90 giorni dalla regolare scadenza, in modo che l’ammenda non passi dal 15% al 30% ed è il consiglio che mi sento, personalmente, di dare a tutti i lettori.
Altro aspetto da evidenziare riguarda eventuali errori nel calcolo della sanzione durante l’applicazione del ravvedimento operoso. In tal senso, l’Agenzia delle Entrate ha tranquillizzato i contribuenti attraverso la circolare n.27 del 2013, chiarendo come dev’essere sempre premiato il comportamento virtuoso al netto di possibili sbagli. Di conseguenza, la buona volontà del contribuente viene riconosciuta anche se la maggior imposta dovuta, la sanzione e gli interessi risultano inferiori a seguito di un calcolo non corretto.
Il ravvedimento frazionato
Tale possibilità è poco conosciuta ma potrebbe risultare alquanto utile in situazioni di temporanea carenza di liquidità. Infatti, tramite il ravvedimento frazionato, il contribuente senza risorse sufficienti per pagare la cifra richiesta può spalmare il versamento in un determinato arco temporale.
Supponiamo di avere un debito di imposte col Fisco di 6.000 euro di IRPEF ma di non disporre di tale cifra per la scadenza prevista. Tuttavia, si ha la certezza che a partire da gennaio dell’anno a venire si potrà cominciare a saldare quanto dovuto; è facoltà del contribuente adottare il ravvedimento frazionato e richiedere il versamento del dovuto, ad esempio, in 3 comode quote da 2.000 euro ciascuna.
In questi casi, non è corretto parlare di rate, in quanto la normativa giuridica al riguardo è molto fiscale e non ritiene il ravvedimento frazionato un’effettiva rateizzazione. Comunque, in tale situazione, ad ogni scadenza si dovrà versare la cifra pattuita a cui aggiungere la sanzione ridotta calcolata in base ai giorni di ritardo e applicando gli interessi legali maturati. Il limite di questo sistema sta nel poterlo applicare solo fino a quando non vengano contestate le violazioni, oppure siano cominciati gli accertamenti e le verifiche fiscali.
Omessa dichiarazione dei redditi: cosa si rischia?
Ogni anno, gli agenti della Guardia di Finanza scoprono migliaia di contribuenti che, nel corso della loro vita, non hanno mai presentato la dichiarazione dei redditi. Soggetti che, di fatto, per l’Agenzia delle Entrate sono completamente sconosciuti e spesso risultano nullatenenti: persone che, il più delle volte, percepiscono compensi in nero o sfruttano altri meccanismi per non risultare titolari di alcun patrimonio. Tale comportamento può benissimo sfuggire alle autorità, ma risulta molto più grave rispetto a chi presenta la regolare dichiarazione reddituale ma non paga le tasse dovute.
Per emergere dal sommerso e finire sotto la lente di ingrandimento dell’Amministrazione finanziaria, è sufficiente ricevere compensi tramite metodi di pagamento tracciabili. Bastano pochi bonifici sul conto corrente per far scattare l’allarme ed eventuali controlli. Allo stesso modo, i titolari di partita IVA che emettono fatture e non presentano correttamente le dichiarazioni, corrono il rischio di finire sotto accertamento qualora i clienti dovessero registrare i documenti fiscali. Inoltre, dal 2019, i titolari di partiva IVA, escluso i forfettari, devono rispettare l’obbligo di emettere la fattura elettronica e spedirla attraverso il sistema di interscambio SdI gestito dall’Agenzia delle Entrate.
Anche se il reato di omessa dichiarazione dei redditi è più grave del mancato versamento delle imposte richieste, come già detto, paradossalmente ha meno probabilità di essere scoperto chi mai dichiarato alcun reddito risultando, a tutti gli effetti, invisibile agli occhi del Fisco.
Quando invece i redditi vengono dichiarati, cosi come i beni patrimoniali registrati, automaticamente l’Agenzia delle Entrate si aspetta di ricevere il proprio “obolo” dal contribuente e pertanto, il mancato versamento delle imposte è facilmente individuabile e, di conseguenza, richiesto e sanzionato.
Ricostruzione dei redditi non dichiarati
Come abbiamo detto, non dichiarare i redditi prodotti è, senza ombra di dubbio, un reato molto grave che può prevedere anche la reclusione fino a 3 anni. Nel caso in cui il soggetto finisca sotto accertamento, le conseguenze potrebbero essere particolarmente pesanti per le sue finanze. Infatti, l’agente della riscossione provvede a ricostruire il reddito facendo una serie di presunzioni in base a determinati parametri quali, ad esempio, lo studio di settore dell’attività svolta dal trasgressore.
Ciò potrebbe portare il malcapitato a dover sborsare cifre decisamente più ingenti di quelle che avrebbe pagato dichiarando regolarmente i propri redditi. In questi casi, infatti, non è detto che il trasgressore abbia eluso chissà quali somme: spesso è una persona che, per non aver denunciato poche migliaia di euro, si ritrova debiti astronomici con il Fisco a seguito delle presunzioni (sicuramente non favorevoli al contribuente) effettuate dal funzionario dell’Agenzia delle Entrate.
Purtroppo, in questi casi, resta ben poco da fare visto che dimostrare il contrario sarà, pressoché, impossibile. I redditi non dichiarati sono, il più delle volte, frutto di lavoro nero o comunque di compensi percepiti con metodi di pagamento non tracciabili: ben difficilmente il soggetto potrà dimostrare la lecita provenienza e un reddito inferiore rispetto a quanto presunto dal Fisco.
Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi: è prevista la prescrizione?
Un argomento a cui prestare molta attenzione riguarda la prescrizione in caso di reato per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Il termine è stato fissato in 7 anni, ciò significa che l’Agenzia delle Entrate può chiedere le somme non corrisposte andando a ritroso soltanto per tale periodo. Quindi, in presenza di un illecito per omessa dichiarazione dei redditi, il lasso di tempo decorre dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui il contribuente avrebbe dovuto dichiarare i compensi percepiti.
Se, ad esempio, non è stata presentata la dichiarazione dei redditi per l’anno 2020, si potranno dormire sonni tranquilli ed essere sicuri di averla scampata soltanto dopo il 31 dicembre 2027.
È chiaro che, nel caso in cui si venisse scoperti, oltre a calcolare l’ammontare delle tasse non pagate, l’Agenzia delle Entrate applicherà le sanzioni previste dalla legge. L’unica buona notizia riguarda la possibilità di non finire dietro le sbarre per un periodo di reclusione che può arrivare ad un massimo di 3 anni, nel caso in cui l’imposta evasa risulti inferiore a 50 mila euro. Per quanto riguarda invece il mancato versamento dell’IVA e delle ritenute certificate, il limite di non punibilità è pari a 250 mila euro.
Cosa si rischia non dichiarando tutti i redditi?
Oltre a presentare la dichiarazione, il contribuente deve dichiarare tutti i redditi percepiti nel periodo d’imposta. In caso contrario, il soggetto commette un’irregolarità che, anche in questo caso, non sempre viene scoperta dall’Agenzia delle Entrate. I maggiori rischi di incappare in accertamenti in tal senso sono dovuti al ricevimento di compensi tramite metodi tracciabili come assegni, carte di credito, bonifici oppure l’emissione di fatture che non saranno poi incluse nella totalità dei ricavi dichiarati.
Tale violazione è valutata dall’ordinamento tributario meno grave dell’omessa dichiarazione e il periodo di prescrizione risulta pari a 5 anni. Avendo dichiarato nel 2020 soltanto una parte del reddito effettivamente percepito, l’Amministrazione finanziaria ha tempo fino al 31 dicembre 2025 per contestare il quanto omesso.
Mancato pagamento delle imposte: cosa si rischia?
Dopo aver analizzato i pericoli a seguito della mancata o parziale presentazione della dichiarazione dei redditi, vediamo cosa accade se invece non vengono pagate le tasse.
Ad esempio, la violazione può riguardare il mancato versamento nelle casse dell’Erario di tributi tipo l’IRPEF, oppure dell’IMU sulla seconda casa, della TARI da corrispondere agli enti locali, ecc. In questi casi l’Agenzia delle Entrate, dopo aver appurato la violazione, passa alla fase di riscossione.
Il contribuente riceverà, tramite raccomandata, un avviso di accertamento che notifica il mancato pagamento delle tasse e avrà 60 giorni di tempo per prendere una decisione: pagare e chiudere la contesa oppure contestare gli importi richiesti.
Una volta trascorso tale periodo, senza che sia stata intrapresa alcuna azione, l’iter prevede l’invio della cartella esattoriale per intimare il pagamento al contribuente. Sono sempre 60 i giorni a disposizione per regolarizzare la posizione, dopodiché, l’agente della riscossione incaricato, potrà applicare tutti gli strumenti in suo possesso per veder soddisfatte le pretese del Fisco.
Potrebbe avvalersi del fermo amministrativo di uno o più veicoli intestati al soggetto, pignorare beni mobili o immobili, oppure richiedere l’iscrizione di un’ipoteca sulla casa, ma solo qualora il debito superasse i 20 mila euro. Comunque, prima di procedere ad azioni quali fermo amministrativo e ipoteca, il contribuente riceverà un preavviso di 30 giorni per avere l’ultima chance di sanare la posizione debitoria.
Pignoramento dell’Agenzia delle Entrate
Il pignoramento è uno dei tanti strumenti utilizzati dal Fisco per recuperare le cifre che gli deve un contribuente non virtuoso. In questo caso, non viene inviato alcun preavviso di 30 giorni, ma è sufficiente lasciar trascorrere i 60 giorni dopo il ricevimento della cartella esattoriale per dare la possibilità all’agente della riscossione di richiedere l’espropriazione forzata. Il funzionario, a sua volta, non deve però lasciar passare più di un anno dalla notifica. Infatti, la cartella di pagamento ha una validità di un anno, entro il quale l’esattore può richiedere il pignoramento. Trascorso tale periodo, l’agente della riscossione ha l’obbligo di inviare al debitore un’intimazione di pagamento che presenta un’efficacia di 180 giorni e che non può essere rinnovata.
La legge ha stabilito delle limitazioni che rendono un immobile impignorabile qualora:
- risulti l’unica casa di proprietà del debitore;
- sia destinato ad uso abitativo e rappresenti la residenza anagrafica del debitore;
- non rientri nelle categorie catastali di lusso, comunque non sia un’abitazione in villa (A/8), oppure un palazzo o castello di significativo pregio artistico o storico (A/9).
Inoltre, è possibile pignorare e procedere alla vendita all’asta dell’immobile esclusivamente se:
- l’ammontare del debito risulta superiore a 120 mila euro;
- il valore complessivo degli immobili di proprietà del debitore supera i 120 mila euro;
- dall’iscrizione dell’ipoteca sono trascorsi almeno 6 mesi e il contribuente non ha provveduto a saldare il debito o rateizzare la cifra, oppure in assenza di provvedimenti di sgravio o sospensione.
Beni pignorabili e impignorabili in caso di debiti fiscali
Nel precedente paragrafo è stata sottolineata la possibilità dell’agente della riscossione di avviare il pignoramento degli immobili in possesso del debitore. Tuttavia, la casa, come abbiamo spiegato, risulta soggetta a espropriazione forzata solo al verificarsi di determinate condizioni.
Ci sono però altri beni aggredibili dall’Agenzia delle Entrate per rientrare del debito, vediamo quali sono ed eventuali limitazioni:
- stipendio: il pignoramento può avvenire presso il datore di lavoro, oppure notificato all’istituto di credito dove viene versato lo stipendio del debitore. La legge ha stabilito la pignorabilità fino ad un massimo di 1/5 degli importi versati, inoltre impedisce il blocco dell’ultimo compenso accreditato sul conto corrente che, invece, rimane integralmente a disposizione del lavoratore. Altro aspetto importante riguarda la differenza dell’azione esecutiva a seconda se le somme presenti sul conto corrente sono state depositate prima o dopo la notifica di pignoramento. Infatti, la soglia minima oltre cui si possono pignorare le cifre dal conto corrente è pari a tre volte l’assegno sociale (460,28 x 3 = 1.380,84 euro) per gli stipendi accumulati prima della notifica. Quindi, gli importi inferiori a tale importo saranno impignorabili: in tale ipotesi e supponendo, ad esempio, che il saldo sul conto corrente del debitore sia pari a 8.000 euro, il Fisco può pignorare al massimo 6.619,16 euro (8.000 – 1.380,84);
- pensione: in questo caso il pignoramento può avvenire direttamente presso l’ente previdenziale che eroga l’assegno mensile, oppure con notifica alla banca su cui è accreditata la pensione. Come accade per lo stipendio, il Fisco può pignorare al massimo 1/5 dell’ammontare dell’assegno previdenziale. Altro aspetto di grande rilevanza si manifesta nel caso di pignoramento presso l’ente pensionistico. In tali frangenti, il quinto della pensione soggetto a espropriazione forzata dev’essere computato al netto del minimo vitale, ovvero 1,5 volte l’assegno sociale (460,28 x 1,5 = 690,42 euro). Se la pensione risulta inferiore a 690,42 euro è considerata impignorabile. Viceversa, il quinto si calcola dopo aver sottratto la quota del minimo vitale dall’importo netto complessivo della pensione. Se ad esempio, l’assegno previdenziale ammonta a 1.200 euro, la quota pignorabile risulta di 101,9 euro (1.200 – 690,42 / 5). Se la pensione è accreditata in banca valgono le medesime considerazioni fatte per lo stipendio, ovvero il pignoramento può essere esteso alle somme già depositate prima della notifica solo per la parte eccedente il triplo dell’assegno sociale (460,28 x 3 = 1.380,84 euro). Se il saldo del conto è inferiore a 1.380,84 euro risulta impignorabile, mentre il Fisco può aggredire solo l’eccedenza. Per la pensione accreditata dopo la notifica di pignoramento, la banca trattiene il quinto;
- fermo amministrativo del veicolo: il fermo amministrativo di un veicolo non è possibile qualora il mezzo risulti strumentale alla professione esercitata, ossia utilizzato dal debitore per lavorare. Naturalmente, spetta al proprietario dell’auto dimostrare come in mancanza del mezzo non sia più in grado di svolgere la propria attività lavorativa;
- polizza vita: le somme assicurate e quelle corrisposte alla compagnia assicuratrice a titolo di valore di riscatto della polizza, sono impignorabili. Quindi i creditori, Fisco compreso, non possono annullare gli effetti di questa tipologia di contratto. Il motivo di tale disposizione sta nel voler tutelare il titolare della polizza durante la pensione o i beneficiari nel caso di una sua improvvisa e prematura morte;
- beni cointestati: in presenza di un conto corrente o di una casa con un secondo intestatario oltre il debitore, il Fisco può procedere al pignoramento della sola metà. Immaginiamo, ad esempio, un immobile cointestato con la moglie: potrà essere espropriato al 50%, ovvero la quota di proprietà del marito debitore. Nel caso in cui si intenda procedere alla vendita del bene, metà del ricavato dovrà essere restituita al cointestatario che non ha nessuna responsabilità nei confronti dei creditori;
- beni di famiglia: ci sono una serie di beni mobili che la legge considera impignorabili. Si tratta per lo più di oggetti e apparecchi ritenuti indispensabili per il diritto alla vita del debitore e della sua famiglia, quindi non possono essere sottoposti a espropriazione forzata. Tra questi rientrano i mobili quali letti, tavolo da pranzo con relative sedie e armadi; elettrodomestici come il frigorifero, la lavatrice, il piano di cottura, le stufe, ecc. Inoltre, anche vestiti, biancheria, viveri, combustibili, utensili da cucina, strumenti per eseguire lavori domestici e armi legalmente detenute dal debitore per la sua sicurezza, non possono essere pignorati. Fanno eccezione mobili e oggetti a cui vengono attribuiti particolari pregi di natura artistica o di antiquariato.
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