Associazioni in partecipazione: cosa sono, a cosa servono e quali i vantaggi
Quando un imprenditore stabilisce che uno o più soggetti che svolgono la propria attività lavorativa saranno ricompensati con una partecipazione agli utili dell’impresa, si parla di associazione in partecipazione. Nei contratti di associazioni in partecipazione, l’imprenditore è denominato associante, mentre gli altri soggetti sono detti associati.
Tale forma contrattuale è disciplinata dall’art. 2549 del Codice Civile e dal D.Lgs n. 81/2015 facente parte del Job Act. Approfondiamo insieme la natura di tale forma contrattuale e gli scenari che ruotano intorno ad essa.
Indice:
- Associazioni in partecipazione: la definizione
- Il rapporto tra imprenditore e associati: come comportarsi con i fornitori
- Utili e perdite delle associazioni in partecipazione
- La suddivisione degli utili tra gli associati
- Contributi previdenziali e associazioni in partecipazione
- Le sanzioni per scorretto impiego dell’associazione in partecipazione
Associazioni in partecipazione: la definizione
Secondo la legge attualmente in vigore, le associazioni in partecipazione sono contratti stipulati tra un imprenditore (associante) e uno o più soggetti (associati) che garantiscono di svolgere attività per l’associante in cambio del diritto a una parte di utile. Essi rinunciano, quindi, a uno stipendio fisso mensile, “scommettendo” sugli utili dell’azienda.
A seguito del riordino della disciplina dei contratti di lavoro, secondo il D.Lgs n. 81 dell’anno 2015, il contributo dell’associato in partecipazione in qualità di persona fisica non deve essere rappresentato da una prestazione lavorativa effettiva, ma da ogni altra forma di apporto all’attività di impresa. Il prestito di somme di denaro o la fornitura della strumentazione, sono due esempi concreti e ammessi dalla disciplina delle associazioni in partecipazione. Sono esclusi da questa distinzione importante, tutti i contratti di associazione in partecipazione stipulati entro e non oltre il 25 giugno 2015.
Il rapporto tra imprenditore e associati: come comportarsi con i fornitori
L’imprenditore vanta il potere di gestione e direzione dell’attività di business senza la necessità di accordo con gli associati in partecipazione. Diritto di quest’ultimi è la sola richiesta del rendiconto dell’attività dell’associante al fine di verificare l’operato ed effettuare i relativi controlli. Attraverso il contratto di associazione i poteri degli associati si ampliano, specie sul controllo dell’attività dell’imprenditore. Tale documento, comprende anche terze figura come fornitori, collaboratori, creditori, etc. Essi assumono obblighi e acquistano diritti diretti nei confronti dell’imprenditore.
ESEMPIO. Un fornitore si accorda con l’associante per la consegna di saponi e salviette a fronte di un compenso. Nel caso in cui, il fornitore non fosse pagato, avrà diritto a richiedere la somma dovuta direttamente ed esclusivamente all’imprenditore e non agli associati.
Utili e perdite delle associazioni in partecipazione
Qualora l’azienda sia in attivo, gli associati hanno diritto a una quota degli utili. Stesso principio per la situazione inversa. Qualora l’impresa sia in passivo, gli associati devono partecipare alle perdite nella medesima misura in cui godrebbero degli utili. Quest’ultimo scenario non si attua nel caso in cui il contratto delle associazioni in partecipazione stabilisca chiaramente che l’associato non risponde di eventuali perdite.
I redditi da attività di associazione in partecipazione sono sempre imputati ai singoli partecipanti. Nello specifico, gli utili corrisposti all’associato in qualità di persona fisica rappresentano redditi di lavoro autonomo nel caso in cui si tratti di mera prestazione di lavoro, e redditi di capitale quando l’apporto è rappresentato da capitali o dalla combinazione congiunta di capitali e lavoro. Quando l’associato è un imprenditore o società, i compensi percepiti rappresentano il reddito d’impresa.
I redditi percepiti come apporto di mero lavoro sono da dichiarare tramite modello Unico, nel periodo d’imposta durante il quale sono percepiti. È bene, inoltre, precisare che il reddito dell’associato è costituito dall’intero ammontare degli utili derivanti dall’associazione. Per il suddetto motivo, eventuali costi sostenuti e compensi ai collaboratori non possono essere dedotti in dichiarazione dei redditi.
La suddivisione degli utili tra gli associati
Le somme di partecipazione che l’associato riceve in base agli utili dell’impresa, sono tassate fiscalmente secondo quanto di seguito riportato:
- se il contributo offerto dall’associato all’azienda è assimilabile all’attività lavorativa, si applica la ritenuta del 20%;
- se il contributo dell’associato all’impresa è in termini capitale (per esempio la fornitura di materiali e attrezzi o direttamente somme di denaro), si applica la ritenuta del 12,50%.
Contributi previdenziali e associazioni in partecipazione
Poiché i compensi percepiti dagli associati sono qualificati come redditi di lavoro autonomo per prestazioni lavorative, le persone fisiche devono iscriversi alla gestione separata INPS entro e non oltre 30 giorni dall’inizio dell’attività. I contributi previdenziali sono calcolati sulla base degli importi lordi erogati all’associato, anche a titolo di acconto sul risultato della partecipazione.
Salvo, ovviamente, conguaglio conseguente la determinazione dei redditi annuale. Nello specifico, il 55% dell’onere è a carico dell’associante, il 45% a carico dell’associato. Il versamento della quota prevista deve essere fatto tramite modello F24 da parte dell’associante entro e non oltre il giorno 16 del mese successivo a quello in cui il compenso è stato corrisposto.
Le sanzioni per scorretto impiego dell’associazione in partecipazione
Fatta la legge, trovato l’inganno. Si tratta di un detto, ma purtroppo vero. Esistono dei casi in cui l’impiego dei contratti di associazione in partecipazione potrebbe nascondere un raggiro della disciplina del lavoro subordinato.
Prima degli interventi di riforma attuati a partire dall’anno 2012, la legge stabiliva che, nel momento in cui l’apporto degli associati era rappresentato da mera attività lavorativa, il numero totale degli associati non doveva superare i 3 membri. In caso contrario, il rapporto si sarebbe trasformato in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La Legge Fornero aveva, infatti, stabilito la presenza di ulteriori ipotesi sospette.
- L’esecuzione del rapporto di lavoro non era seguita da una concreta ed effettiva partecipazione agli utili: l’associato percepiva una retribuzione simile alla stipendio di un dipendente;
- Il rendiconto da parte dell’imprenditore-associante non era effettuato a seguito dell’attività lavorativa;
- L’attività eseguita dall’associato non rifletteva le proprietà tipiche dell’attività da lavoro autonomo, ma assumeva in prevalenza le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato.
La presunzione, fino a prova contraria, consisteva nel credere che il rapporto tra associato e associante fosse di natura subordinata a tutti gli effetti, comprendendo orari, mansioni, licenziamenti, contributi e retribuzioni del tutto uguali e tipici della suddetta forma contrattuale.
A seguito del Decreto Lavoro n. 76/2013, sono state definite le dimissioni dei lavoratori associati, assoggettandole all’iter previsto dalla Legge Fornero. Sono stati, inoltre, previsti specifici strumenti volti a facilitare l’assorbimento con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato delle persone fisiche assunte in precedenza con contratti di associazioni in partecipazione. Il tutto per disincentivare gli abusi collegati all’utilizzo di questa particolare forma contrattuale.
Michela Edma Vernieri Cotugno, Il Commercialista Online
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